domenica 24 febbraio 2008

La rabbia e la speranza

Visto che ero proprio li', un amico giornalista mi ha chiesto un articolo sugli scontri che sono capitati a Belgrado giovedi' scorso a seguito della proclamazione di indipendenza del Kosovo. Ecco di seguito il mio "reportage".
Buona lettura!

LA RABBIA E LA SPERANZA
A seguito dell'autoproclamata indipendenza del Kosovo il 21 febbraio Belgrado ha vissuto una notte di devastazioni. Un rigurgito del peggior nazionalismo che non deve far dimenticare il desiderio della maggioranza dei Serbi di essere parte dell'Unione Europea.

È sempre pericoloso giocare con le frustrazioni, dovrebbe saperlo ognuno e ancor di più i politici. Quando invece questi ultimi decidono di usare le frustrazioni di un popolo per la loro battaglia politica le conseguenze sono quasi sempre tragiche.
Giovedì scorso in piazza Nicola Pasić c'era almeno mezzo milione di persone. La prima cosa che colpiva era il grande numero di giovani, provenienti in maggioranza dalle province. La seconda era la presenza relativamente limitata dei trenta-quarantenni, ovvero di coloro che oggi fanno funzionare il paese e che sono stati in prima fila nelle manifestazioni degli anni Novanta contro Slobodan Milosević.
Annunciata da tutti i media come unitaria e nazionale, in realtà, senza la presenza di esponenti dei partiti filoccidentali (DS del presidente della Repubblica Tadic, G17plus e LDP), la manifestazione diventa subito una grande occasione per dar sfogo al nazionalismo estremo dei radicali di Tomislav Nikolić e a quello “governativo” del primo ministro Vojislav Koštunica. Nazionalismo sconfitto di nuovo dalla scelta della maggioranza dei serbi di confermare il 3 febbraio scorso il democratico Boris Tadić alla presidenza della Repubblica per un secondo mandato, al ballottaggio proprio contro Nikolić. Ecco che seguendo i discorsi degli oratori si venivano ad addensare assieme molteplici frustrazioni. La perdita del Kosovo innanzitutto, imposta alla Serbia come una postuma umiliazione per i massacri del regime di Milosević calpestando il diritto internazionale, tant'è che ancora oggi l'unica Risoluzione Onu al riguardo, la 1244, ancora attribuisce alla Serbia la sovranità di quel territorio. La recente sconfitta elettorale dei nazionalisti e dello stesso primo ministro Koštunica, il quale non volle sostenere al ballottaggio il suo alleato di governo Tadić. La rabbia delle province, ancora in gran parte escluse da uno sviluppo economico poderoso che ha migliorato quasi solo la vita degli abitanti di Belgrado.
Una sensazione collettiva di impotenza mista all'orgoglio di un popolo la cui identità si è costruita per secoli in antitesi al dominio turco e all'islam. Una tensione trattenuta a stento e di malavoglia, a cui la birra forniva un buon alibi per esplodere. La voglia di trovare qualcuno con cui prendersela traspariva dalle facce di tanti. Gli oratori, d'altra parte, non avevano detto nulla per stemperare gli animi. Gli slogan sul Kosovo parte della Serbia, ripetuti ossessivamente come un mantra per esaltare la rabbia. Le dichiarazioni di odio verso gli Stati Uniti, gli albanesi, la Turchia, l'Unione Europea. D'altronde chiedere aiuto alla piazza è sempre segno di debolezza, a maggior ragione se lo fa un Primo Ministro.
Quando terminano i comizi un corteo di alcune centinaia di migliaia di persone si dirige verso il santuario di San Sava, dove la manifestazione ufficiale si concluderà con una preghiera collettiva. La manifestazione di migliaia di facinorosi si concluderà ore dopo, con il rogo dell'ambasciata americana, la distruzione e il saccheggio di decine di negozi, l'attacco a edifici pubblici, e il sacrificio di una vita umana. La polizia ha lasciato che migliaia di dimostranti si dirigessero verso Kneza Milosa, il vialone delle ambasciate. Nessun sbarramento al primo incrocio tra questa strada e Kralija Milana, nessun sbarramento di polizia nemmeno oltre, tra la medesima strada e Njemanina. Eppure tre giorni prima per un'altra manifestazione lo schieramento di polizia a protezione delle ambasciate era stato imponente. A questo punto l'ambasciata americana è a un passo, e poi di seguito quella tedesca, quella croata, l'istituto Italiano di Cultura. Deserta l'ambasciata statunitense, sempre presidiatissima, in pochi minuti decine di facinorosi vi entrano, armati di bottiglie incendiarie e razzi iniziano ad appiccare i roghi. La bandiera a stelle e strisce viene sostituita dal tricolore russo. Attorno a loro centinaia di ragazzi assistono compiaciuti, facendosi fotografare davanti ai roghi come un souvenir da lasciare ai nipoti. Su quello sfondo qualche coppia si bacia, mentre gli assalitori ubriachi ballano dentro l'ambasciata in fiamme. Pochi minuti e sarà poi la volta dell'ambasciata croata e di quella tedesca, comunque con danni minori. Solo dopo almeno mezz'ora arrivano le truppe antisommossa. A questo punto gli assalitori scappano per le vie laterali e provano ad attaccare l'ambasciata inglese, ben presidiata questa volta. Il nuovo punto di raccolta diventa piazza Slavija. Devastazione. L'unico MacDonald's finora sopravvissuto in centro viene dato alle fiamme. Un negozio di telefonia mobile viene annichilito, non resteranno neanche gli arredi. Si forzano le serrande per rubare i computer. Negozi di alimentari, bar, panetterie si ritroveranno con le vetrine spaccate. Decine e decine impegnati a devastare ma migliaia i giovani presenti.
Alle 20.30 trovo finalmente un taxi per sfuggire alla devastazione, mi chiederà un prezzo spropositato ma fa parte del gioco. Ho appuntamento con alcuni amici serbi fuori dal centro e con la loro macchina andiamo in un locale sulle colline della città. Sono depressi e arrabbiati. Stanno per aprire un'impresa di acquacoltura con i risparmi delle loro famiglie e temono che gli investitori esteri si ritireranno dopo una tale serata di follia. È la Serbia che riconosco, ragazzi e ragazze che negli anni Novanta erano in piazza da adolescenti contro Milosević e non vogliono perdere la libertà e quel minimo di sicurezza economica costruite con tanti sacrifici. Meritano rispetto e aiuto. Chissà se l'Italia e l'Unione Europea si accorgeranno di loro.

domenica 17 febbraio 2008

Biocapitalismo

Il biocapitalismo può essere definito come la messa a valore della materia biologica e del vissuto psichico degli individui.
Mentre il pensiero critico ha studiato come il capitale morto "vampirizza" il lavoro vivo, il quale comunque accettava questo scambio solo all'interno delle otto ore di lavoro contrattualizzate del modello fordista, non si è colta la trasformazione avvenuta nell'ultimo ventennio quando il capitalismo ha oltrepassato l'ultima frontiera, quella del corpo dell'essere umano.
Il biocapitalismo oltrepassa l'idea dello sfruttamento del lavoratore salariato o precario per spingersi verso l'uso dell'essere umano come identità da manipolare a pagamento (chirurgia estetica), come vettore di mode monetizzabili (il fruitore di media e costrutti simbolici), come materia biologica da brevettare (ingegneria genetica), come vissuto da "riempire" e a cui trasferire senso (l'entertainment e l'industria culturale).
Il biocapitalismo ha scoperto che il valore risiede nelle identità, nei significati, nelle esperienze degli individui e nel loro desiderio di acquisire sempre nuove identità, nuovi significati, nuove esperienze. Grazie al fatto che oggi la materia biologica e il vissuto psichico sono brevettabili e manipolabili, essi diventano le vere fonti del valore.
L'esigenza del biocapitalismo diventa quella di trovare sempre nuovi modelli di utilizzo delle nuovi fonti di valore e di costruire un ambiente che alimenti costantemente il desiderio di identità, significati ed esperienze.
Il biocapitalismo non punta a contrattare un costo di acquisto o un prezzo finale, ma a persuadere verso l'accettazione di un modello di vita.

sabato 9 febbraio 2008

Prepararsi al naufragio

Nel 1961 il Presidente del Consiglio dei ministri Amintore Fanfani nominò il 39enne Ettore Bernabei direttore generale della Rai, il quale restò capoazienda per quasi 14 anni, fino al 1974.
Nell'Italia del 2008 la nomina di un 39enne a ruoli rilevanti ci appare impossibile. In effetti se un politico osasse fare una tale scelta verrebbe accusato di incoscienza a dare a un "bambino" tanto potere.
Ma perché e quando in Italia si è radicata una tale gerontocrazia?
Senza poter dare risposte definitive in poche righe di un blog, penso che vi sia un legame stretto tra debolezza della classe dirigente e gerontocrazia. Più una classe dirigente si considera legittimata, forte e ritiene di poter restare al potere sul medio-lungo periodo, tanto più potrà delegare potere alla generazione successiva senza temere di venirne scalzata dall'oggi al domani. Al contrario una classe dirigente cosciente dei propri limiti si circonderà di lacché e incapaci; nominerà in ruoli di responsabilità persone avanti con gli anni, più ricattabili e, per ragioni strettamente anagrafiche, poco aduse a ragionare sul lungo termine. Questo meccanismo garantisce la classe dirigente in sella ma paralizza il Paese, come accade oggi in Italia.
In realtà non sembra che al di sotto dell'attuale classe dirigente italiana non vi sia nessuno pronto e capace a prenderne il potere. I boss italiani sono screditati ma hanno ancora la forza per soffocare sul nascere ogni cambiamento. Questo è il vero dramma italiano. L'unica soluzione sembra essere quella di attendere il naufragio definitivo dell'Italia e di questa classe dirigente per lasciare ai sopravvissuti il compito della ricostruzione. E non è detto che sopravviveranno i migliori.

sabato 2 febbraio 2008

Napoli siamo noi

Anni fa il libro di Giogio Bocca suscito' indignazione a Napoli: ecco il solito giornalista del Nord che spara giudizi sulla nostra citta', non accorgendosi per mala fede patente delle magnifiche sorti e progressive che il dominus Bassolino aveva realizzato per la citta'. D'altra parte anche la signora Sindaco Iervolino reagi' come suo solito stizzita, prendendo come un'offesa privata legittime critiche alla gestione pubblica.
Ora che la realta' e' sotto il naso di tutti bisognera' riflettere a lungo su una delle piu' clamorose operazioni di comunicazione politica avvenute in Italia: una bolla mediatica ha sostenuto per 15 anni un sistema di potere autoritario il cui lascito piu' grave non e' la monnezza ma la desertificazione della classe dirigente locale.
La rappresentazione della politica come una casta che ne fanno i giornalisti tende a far dimenticare che di quella casta i giornalisti sono in stragrande maggioranza gli aedi e a volte i complici.
Napoli siamo noi. Trovare il capro espiatorio e' una banalizzazione che non esonera i media, i giornalisti e i comunicatori dall-esaminare le proprie responsanilit' di omesso controllo e critica.
Il sottoscritto, capito l'andazzo, preferi' dimettersi piuttosto che continuare a lavorare con la Giunta Iervolino.